Scotti: "Il problema è la governance non l'autonomia professionale"
Di seguito l'intervista del nostro Segretario Nazionale sull'ultimo numero di AboutPharma: un attacco a testa bassa al sistema manageriale, una riflessione a 360° su nuove tecnologie, carenze organiche e nuovi modelli organizzativi.
La medicina generale non ci sta. Covid o non Covid, per il maggiore sindacato dei camici bianchi italiani - la Fimmg - i problemi del territorio non si risolvono rendendo i mg dipendenti diretti del Ssn ma con una revisione del loro modello contrattuale (la Convenzione) legata a obiettivi di salute programmati, misurabili e condivisi con i manager pubblici. I quali però sono tacciati quantomeno di un’incompetenza a 360° che ha fatto danni pure nella fase di emergenza. Nell’intervista che segue il segretario nazionale Silvestro Scotti – che ricopre anche la carica di presidente dell’Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri di Napoli – attacca a testa bassa, ripercorrendo questioni antiche e mai risolte, aggravate prospetticamente dalla carenza di personale, non necessariamente sanate dalla rivoluzione digitale in atto e dall’apporto degli infermieri di famiglia. Anzi.
La crisi pandemica ha messo in evidenza ancora di più il difficile coordinamento tra ospedale e assistenza territoriale. Le responsabilità, per definizione, vanno condivise. Cominciamo?
Qui c’è un problema di governance, più che di modelli di assistenza. Chi dovrebbe assicurarla trova più comodo sostenere che c’è un’area autoreferenziale della medicina generale che rende difficile la gestione a causa della propria autonomia. Non si dice però che proprio quell’autonomia garantisce il rapporto fiduciario con il paziente: non capisco se il coordinamento e la rete territorio-ospedale vuole valorizzare il vantaggio dato da tale rapporto oppure no. Sia chiaro che se si trasforma il modello contrattuale della medicina generale quel modello si perde. E con quello anche la possibilità della personalizzazione delle cure, che dovrebbe essere tipica dell’assistenza territoriale, andando verso la loro standardizzazione.
Non crede che ci possano essere cittadini che si sentano rassicurati da un modello che riporta la medicina generale nella dipendenza pubblica?
Apparentemente. Quando poi vai a descrivere quel modello rispetto alle caratteristiche dei territori ti accorgi che ottieni risultati esattamente contrari a quelli che vuoi ottenere. La discussione sulla medicina generale assimilata alla dipendenza comincia con le Utap (forme associative della medicina generale concepite a partire dall’accordo convenzionale del 2001). I manager della sanità le avevano immaginate avendo sempre maneggiato un sistema di dipendenza senza avere la minima idea di come funzionasse uno libero professionale seppur convenzionato. Le Utap calcolate come sistema che doveva trasportare verso la dipendenza la medicina generale, per rendere compatibile il modello con il livello di investimento che si ipotizzava, portavano a un rapporto tra medici e pazienti di uno a 5-6 mila. Se qualcuno oggi mi dimostra che si riesce a mantenere un rapporto fiduciario con numeri di questo tipo io dico che ha ragione a volere la dipendenza. In alcune esperienze regionali la medicina generale si sta configurando come un sistema di filtro alla medicina specialistica che è qualcosa di diverso. Ma il Ssn ne perde in efficienza, perde quel rapporto continuato che permette in molte realtà di salvare la vita alle persone. Io non dico che il medico di famiglia sia un medico più competente, ma è più prossimale di uno specialista. Di fatto il paziente lo rintraccia a chiamata e rapidamente si riesce insieme a rilevare variazioni di salute rispetto alla sola osservazione, indipendentemente dalla poca o tanta capacità professionale. E l’osservazione resta una parte fondamentale delle cure primarie: in epoca di Covid stiamo cercando di sopperire alla selezione degli accessi con la dinamica a distanza.
A proposito di rapporto fiduciario. Il tempo di cura all’interno dello studio del mg è forzatamente ridotto. Sarà anche una vecchia polemica ma ha un suo fondamento…
Il tempo di cura non si può misurare sulla singola visita ma sul lungo periodo. Mi chiedo allora come funzionerebbe se ci fossero 5-6 mila pazienti per medico come in Portogallo o in Turchia dove i generalisti sono dipendenti.
Parliamo di soluzioni, allora…
Il management dovrebbe dare indicazioni, soprattutto il middle management che però non ne ha le capacità. Sulla convenzionata ha fallito miseramente. Ogni volta che ci confrontiamo con la Sisac (l’agenzia trattante i rinnovi contrattuali per conto delle strutture sanitarie regionali, n.d.r) continuamente ci imbattiamo in chi vuole inserire nei contratti modelli tipici della dipendenza senza avere potere autoritativo nei confronti dei medici convenzionati. Dovrebbero almeno agire sul piano motivazionale che non è solo economico. Invece deprimono la nostra capacità di cura imponendo piani terapeutici e riducendo l’appeal professionale rispetto a quello dello specialista. Cosa succede il giorno che diventiamo dipendenti? Potremo prescrivere tutto? E perché? A garanzia di chi?
Di quali modelli motivazionali parla?
Nella contrattualità della dipendenza negli ultimi anni ne sono stati proposti due legati a una possibile evoluzione di carriera (che noi non abbiamo). Una è quello di progredire dentro una struttura sanitaria (semplice, complessa). L’altra era legata all’individuazione del cosiddetto professional: un medico di grande capacità professionale che poteva ottenere riconoscimenti economici, prescindendo dal fatto che ricoprisse una carica gerarchica. In Italia ce ne sono pochissimi.
Questo che significa?
Che tutta la proiezione della dipendenza è sulla carriera gerarchica di tipo direzionale. Il che significa che il medico perde la parte professionale assistenziale e assume solo responsabilità, controllo organizzativo, economico, amministrativo rispetto alle procedure. Ovvero non fa più il medico. A questo porta la trasformazione nella dipendenza. Se qualcuno crede che questo migliori il Ssn lo deve dimostrare.
Tra i medici dipendenti però ci sono fior di professionisti che fanno esattamente quel mestiere e pure bene
Ci mancherebbe. Parlo di un modello di progressione che dovrebbe essere appetibile per noi ma che non vale più nemmeno nelle fabbriche metalmeccaniche. Ormai i sistemi manageriali vanno verso approcci motivazionali misurati rispetto a obiettivi. L’articolo 1 dell’ultimo contratto l’abbiamo dovuto scrivere noi: volevamo quote variabili rispetto a obiettivi di salute della popolazione. Avevamo chiesto l’accesso a quote di prestazioni riferite all’area pubblica poi l’abbiamo evoluto nella possibilità di svolgere diagnostica diretta negli studi. Stiamo lavorando sul rapporto massimale/ottimale medico-paziente ipotizzando lo sviluppo di micro-team formati non solo da medici. Nel tempo sono aumentati i nostri carichi di lavoro e la popolazione assistita è cresciuta di vent’anni. Abbiamo una quota di cronici e di fragili enormemente superiore all’interno dello stesso margine contrattuale. E c’è bisogno di essere coadiuvati da altre figure, come il collaboratore di studio. Ma i costi sono tutti su di noi.
Cosa è successo in Lombardia?
Ha un territorio diverso. Lo stava organizzando sul lavoro di cooperative mediche e non è stata capace di orientarle dalla gestione dei cronici a quella dell’acuto Covid. Il gestore doveva avere a disposizione le centrali di servizio e governare le prestazioni: se gli avessero dato la competenza sui pazienti contumaci e la quarantena si sarebbe affrontato meglio il problema. Di certo è mancata l’attività di prevenzione, sono mancati gli uffici di igiene. La gente ha aspettato in quarantena, e persone a casa chiaramente Covid non hanno mai avuto un tampone.
E poi è andata dritta negli ospedali…
Non è vero, la gente non è andata, gli è stato detto di andare! All’inizio il Governo diceva di chiamare il 112 se c’erano sintomi. Siamo stati noi a sollecitare il Governo per far partire il triage con la medicina di famiglia. Ci sono ancora pubblicità in strada pensate dai manager regionali – gli stessi che ci vogliono dipendenti – che per tosse e raffreddore spingevano per il 112 e l’ospedale. Cosa che in Lombardia ha fatto saltare la centrale operativa. Solo dopo la nostra proposta di triage telefonico a vantaggio di tutto il Ssn è partito il messaggio di chiamare il medico di famiglia. Oggi a distanza di due mesi tutti hanno dimenticato.
Lo strumento della convenzione è ancora valido? Come aggiustarlo per facilitare la presa in carico?
Deve essere ricompreso e fatto proprio innanzitutto dal legislatore. All’inizio il meccanismo è stato congegnato proprio per la capacità di esser adattivo rispetto a un modello di iniziativa libero professionale che non può essere governato con strumenti di subordinazione. A questo punto però si deve creare un sistema di controllo e responsabilità e per fare questo si deve agire in maniera significativa sulla struttura del compenso, commisurato rispetto a obiettivi e coerenti all’interno dell’area convenzionata. Se invece firmiamo il contratto sulla specialistica prima e non stabiliamo una coerenza con la medicina di famiglia, che senso ha creare collegamenti tra gli obiettivi della convenzionata con quelli dell’ospedalità pubblica e viceversa? E poi c’è il tema delle risorse umane. Per me il problema non sono i contratti ma l’incapacità di governarli da parte di chi ne avrebbe la responsabilità. Che resta un dipendente e ragiona con criteri da dipendente. La tensione verso la dipendenza non è mai stata forte come adesso. Poi se distruggono il mondo reale lo vedremo troppo tardi.
Perché questa spinta?
Non so se sia una reattività alla capacità di contro discussione che la medicina generale sta proponendo in questo momento. In fondo, una medicina generale “utile idiota” che non pone problemi è l’ideale.
Elenchiamo i problemi. Facciamo esempi
Qualcuno mi spieghi perché in questi tempi il piano terapeutico si è potuto prolungare per tre mesi e adesso non si può eliminare. Se c’era un rischio legato alla prescrizione di un farmaco innovativo e a causa di Covid, forse si potevano allestire percorsi puliti per mandare gli specialisti a casa di pazienti o viceversa. La risposta è stata semplicemente di estendere il piano senza la visita specialistica. Che allora è inutile. La verità è che l’Aifa non ha neanche i dati sul controllo dei piani terapeutici, che pure sono stati istituiti per monitorare il costo del farmaco e valutarne i rischi e benefici da parte dello specialista…
Tutto è andato in deroga. Magari si farà adesso…
Comodo metterla così. Perché fino al 31 luglio oggi posso fare un certificato per la 104 che consente di non andare al lavoro, grazie al decreto Rilancio, e non posso fare un’esenzione per ipertensione a un paziente che identifico io per primo? Il management del distretto vuole questo, perché non sanno fare altro. E domani dovrebbero essere loro a determinare un modello assistenziale? Non sono ottimista.
Che succederà con gli infermieri di famiglia dipendenti?
Succederà che partirà la mobilità interna alla categoria e si sposteranno tutti gli infermieri dall’ospedale al territorio. Dopodiché? Quello è l’infermiere che va a domicilio? Perché io non dovrei dare un diritto a un infermiere professionale di fare una nuova esperienza? Il rischio è che i giovani andranno negli ospedali che funzioneranno sempre meglio e gli anziani sul territorio che funzionerà peggio. Nel disegno dei manager, che sono tutti ospedalieri, c’è sempre il bisogno di continuare ad avere presenze di comodo sul territorio (l’espressione originaria è più forte, n.d.r).
La vostra professione, come tutte, si è dovuta adattare alla realtà della pandemia. Nelle prossime fasi come si muoverà?
Adesso devono ripartire le visite domiciliari che sono rimaste ferme. Nel decreto Cura Italia c’è scritto che i dispositivi di protezione individuali (Dpi) devo essere forniti a tutti i medici anche convenzionati e a tutti gli operatori coinvolti in ambito Covid. Mi aspetterei che un manager di distretto capace mi chiamasse per sapere di cosa ho bisogno. In tre settimane e più l’ha fatto qualcuno in Italia? Nessuno ci chiede nulla nonostante dopo tre mesi stiamo segnalando che non possiamo attivare Adi e Adp. Questi sarebbero i manager? In che modo la nostra dipendenza risolverebbe il problema della loro incompetenza? La verità è che in questi giorni di lockdown abbiamo lavorato senza orario e con reperibilità garantita a distanza. Se mi affaccio un attimo alla finestra i pazienti mi subissano di richieste. Cosa dico se divento dipendente, che non sono in orario di lavoro?
Da anni l’Istituto superiore di Sanità ricorre a una rete di medici sentinella denominata Influnet che dovrebbe rilevare l’andamento dell’influenza stagionale. Che fine ha fatto?
Sta là, sono migliaia i medici che partecipano. A gennaio la Fimmg ha chiesto di prolungare la campagna vaccinale proprio perché si rilevavano polmoniti anomale, che ovviamente non collegavamo a Covid. Abbiamo preso tempo, fatto verificare se c’era davvero un incremento e l’abbiamo segnalato. Nel tempo si perde pure la conoscenza degli strumenti disponibili: il management non se lo pone nemmeno il problema, anche in questa fase. Perché non usare oggi – oltre la stagione influenzale – proprio il sistema dei medici sentinella Influnet visto che esiste? Questa sarebbe responsabilità dei Dipartimenti di prevenzione non dei medici di medicina generale… E a proposito di Iss, sono dovuto andare per tre settimane consecutive per capire quali aree degli operatori sanitari fossero maggiormente esposte al rischio. C’è voluto un mese e mezzo e intanto abbiamo contato i morti. A un certo punto hanno tirato fuori il dato che l’impatto di Covid sugli infermieri era al 47% mentre su di noi allo 0,7%. A me però hanno insegnato che un valore percentuale è legato al numeratore e al denominatore: se i tamponi li hai fatti solo negli ospedali e a noi no, come fai dire certe cose? A questi epidemiologi strapperei la laurea, non solo la specialità. Se questi sono scienziati, io sono un premio Nobel…
Covid a parte, visto che parliamo di questioni annose, qualche responsabilità sul funzionamento delle cure primarie e dell’assistenza territoriale l’avrete anche voi. O no?
Sicuramente io come sindacato ho il problema di traghettare verso un sistema di ruolo e responsabilità una medicina di famiglia, educata per anni da contratti malfatti a fare il minimo al maggior costo. Questo il mio problema vero. Se io voglio continuare a essere un libero professionista so di essere esposto al rischio di un modello che sta saltando. La riduzione progressiva del numero di medici sta contraendo ulteriormente la concorrenza sulle scelte ovvero l’unico percorso “di carriera” che si poteva immaginare, coltivando i pazienti uno per uno. La presa in carico si dovrebbe fare così. Oggi invece il medico entra nella professione già con 1500 assistiti. Ci sono giovani che vengono in Lombardia dal Sud, raccolgono 1500 scelte in una settimana e aspettano solo di tornare indietro. Ovviamente hanno una visione della medicina generale non efficace rispetto alle necessità. Questo succede perché la struttura del compenso è troppo caricata su una quota fissa, non collegata a coefficienti di responsabilità.
Come si corregge il meccanismo? Qualche esempio?
Penso si debba mantenere una quota in volume ma deve essere arricchita da quella della prestazione. Prendiamo l’ipertensione, una malattia cronica. Se sono dotato di ecografo, vado a confrontare la riduzione degli accessi specialistici per quella prestazione, correlata al totale di ipertesi tra i miei assistiti, al numero di Ecg da fare ogni anno, a quelli prescritti l’anno prima etc. Poi si misura il tasso di riduzione e quello di efficienza, confrontandolo in telemedicina con gli specialisti, per vedere se si riducono gli accessi e le liste di attesa. Le aziende sanitarie devono mettere degli obiettivi e attribuire un coefficiente di aumento se quella prestazione deve essere resa disponibile per tutti i pazienti secondo la mia necessità professionale. In tal modo il medico prende in carico un paziente nell’ambito di un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) di intensità leggermente superiore a quello che avviene adesso. Così si facilita anche la medicina di iniziativa. Che non è fare venire i pazienti in studio per consegnare una ricetta per visita cardiologica…
L’ultima legge di Bilancio ha stanziato 235 milioni di euro, per l’acquisto di strumenti di piccola diagnostica ad uso della medicina generale. Che ne è stato?
Quei soldi sono stati pure già ripartiti tra le Regioni ma nessuna li ha usati. In questa fase potevano servire, ad esempio, per acquistare saturimetri, ecografi portatili etc. che sarebbero stati utili per vedere la polmonite interstiziale già a casa del paziente e ridurre gli accessi impropri in ospedale. Ecco, come si fa a dire che il territorio non funziona quando chi deve farlo funzionare non considera tutto quello che è stato fatto? Devo dare atto al ministro Speranza della buona volontà. Il sistema manageriale invece vuole distruggere il territorio, non è vero che cerca il coordinamento. Posso solo concedere che gli amministratori della salute pubblica e i grandi professori lo fanno inconsapevolmente. Perché il territorio non lo conoscono, non lo praticano, non lo insegnano nelle università. Nella loro mente tutto il percorso sta nella didattica universitaria, nella specialità. Se l’hai fatta sei uno loro pari. Altrimenti un “paria”.
Nel frattempo la categoria dei medici di medicina generale sta invecchiando…
Sì, siamo una categoria anziana e Covid ha dato un’accelerazione, non solo per il tributo di vite umane che anche noi abbiamo dovuto pagare. Immagino colleghi di 65 anni che devono proiettarsi con i propri acciacchi sulla prossima stagione influenzale, più il coronavirus. Se io potessi andare in pensione lo farei. Due anni fa dicemmo che in cinque anni sarebbero mancati diecimila colleghi (il totale attualmente attivo secondo Eurostat si aggira intorno ai 54 mila, n.d.r.) lasciando 15 milioni di italiani senza mg. Tanti erano allora i medici di famiglia di età compresa tra 65 e 70. Una parte è già ha andata in pensione ma i primi due anni impattavano meno. Ora inizia un’epoca, fino al 2023, dove ne risentiamo di più: ne escono tre-quattromila l’anno. Al Nord è già così. In Lombardia, ad esempio, non vale più il discorso ottimale/massimale perché il numero di medici per numero di abitanti è di 1/1400. Di che parliamo? La Lombardia continua a pubblicare elenchi di zone carenti che tali restano. In Campania, ad esempio, invece i medici sono tanti, le carenze pure ma siamo ancora fermi alle assegnazioni del 2018. Altro segno di incompetenza ma per paradosso il ritardo della Campania sta salvando la Lombardia: se la Campania colma le carenze 2018, 2019 e 2020 da dove arriveranno i medici? Ovviamente dalla Lombardia che non avrà solo il buco dei medici che vanno in pensione ma anche quello dei medici che se ne tornano a casa. A Milano e dintorni si inventeranno di tutto per coprirlo. Fosse solo perché un governo di centro destra non potrà giustificare che De Luca in Campania ha i medici per mantenere il sistema delle cure primarie e loro no. Il leit motiv è sempre lo stesso. Anche questa è governance. Che è un lavoro da manager più che della medicina generale. Chi doveva farlo? Chi doveva battere i pugni sul tavolo per pubblicare più posti e rendere la Regione attrattiva? Nemmeno il conto per i posti di formazione rispetto ai bisogni di popolazione sono stati capaci di fare…
Poi c’è la digitalizzazione che dovrebbe essere utilizzata per accelerare il raccordo tra le funzioni
Sicuramente. Ma anche su questo terreno misuriamo l’incompetenza dei manager. Chi spinge per le visite specialistiche a distanza, lo sa che per il codice deontologico non sono visite mediche? Eppure ci sono Regioni (Toscana, Campania, Marche hanno deliberato) che fanno già pagare il ticket al paziente per il videoconsulto. Per me, invece, la vera rivoluzione digitale è quella che permette di realizzare un coordinamento tra ospedale e territorio, rendendo la televisita specialistica un teleconsulto a tre (medico+medico+paziente).
Si può già fare
E certo. Tanto più se dispongo di device che amplificano la mia capacità e il teleconsulto viene fatto in presenza medica, con lo specialista collegato. A quel punto sì che diventa visita specialistica con device prossimali al paziente. Se invece fai visita a distanza su piattaforme che bisogna pure vedere quali sono, a quel punto basta un medico dall’altra parte del mondo che ti risolve il problema. Così serviranno anche meno specialisti…
Ma non infermieri. Tant’è che il Ssn prevede di dotarsene…
Anche qui si fanno scelte incomprensibili. Concorsi sbagliati, ventimila medici laureati ogni anno con difficoltà di accesso alla specializzazione, pletora… Un sistema di cure primarie sottratto all’area medica per trasferirlo a quella degli infermieri che sono di meno. Non era meglio laureare direttamente in scienze infermieristiche? In questo Paese c’è un’assenza di consapevolezza, programmazione e valutazione dei fabbisogni. Le stime dicono che avremo sempre più due imbuti: uno professionale legato alla scelta di far prevalere gli infermieri; uno formativo post laurea perché per fare il medico hai bisogno della specialità con borsa di studio che non superano le 8-9 mila. Restano 10-11 mila precari in giro. Poi c’è un altro buco formativo…
Quale?
Formiamo manager che sappiano governare i dipendenti e i convenzionati. Che conoscano i modelli contrattuali degli uni e degli altri. Il manager dovrebbe “usare” il sistema libero professionale e il concetto di rischio di impresa. Lo stesso lo dovrebbero fare pure per l’infermiere di famiglia, che sia convenzionato e non dipendente. Se convenzionato, si deve guadagnare la scelta, mettere su un ambulatorio, andare in economia di scala e a quel punto sì che deve raccordarsi con il mg. Ritengo inutile e pericoloso che sia dipendente: se la sua azione, inazione o contrazione impatta sulla fiducia del paziente riferito a me, io rischio la scelta e lo stipendio mentre lui continua a prenderlo. Questa è la premessa per nuovi litigi e nuovi silos. Altro che coordinamento.