Approfondimento
venerdì 11 ottobre 2013
Una lunga battaglia quella che vede protagonisti i medici di famiglia contro l’odiata Irap.
Mentre gli accordi nazionali e regionali li spingono verso l’organizzazione, dall’altra coloro che si strutturano sono costretti a pagare l’Irap spesso in misura superiore al costo del lavoro.
Un punto a loro favore è offerto dalla sentenza della Corte di Cassazione sez. tributaria n. 22020 del 25 settembre.
L’Irap, sostengono i giudici, “coinvolge una capacità produttiva che può non essere compiutamente autonoma, ma deve essere sempre impersonale e aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista”, e deve essere riconducibile a “un insieme di fattori che per numero, importanza e valore economico siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista”.
I giudici di piazza Cavour, tra le motivazioni alla base del rigetto del ricorso proposto dall’Agenzia, evidenziano come “l’automatica sottopozione ad Irap del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente, qualsiasi sia la natura del rapporto e qualsiasi siano le mansioni esercitate, vanificherebbe l’affermazione di principio desunta dalla lettera della legge e dal testo costituzionale secondo cui il giudice deve accertare in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatone ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’Irap divenga una (probabilmente incostituzionale) “tassa sui redditi di lavoro autonomo.
Avv. Paola Ferrari
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