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«Il medico di medicina generale si deve dotare delle tecnologie necessarie che non sono più prescindibili per fare questo lavoro. Dentro uno studio devono esserci dei device e dei collegamenti che lo rendano moderno. Abbiamo una serie di strumenti, ecografi, poc, spirometri e altro che devono essere introdotti negli studi dei medici di medicina generale per avere prestazioni di qualità». Lo ha detto il vicesegretario della Fimmg, Domenico Maria Crisarà, intervenendo al convegno “Dalla pandemia da Covid ai nuovi modelli di assistenza socio-sanitaria territoriale”, organizzato dalla Asl di Teramo.
«Ci sono strumenti collegati a internet che possono essere usati a domicilio, dal paziente. Abbiamo sperimentato ad esempio un elettro-cardiografo a tre tracce a casa di un cardiopatico importante. Nel momento in cui il paziente ha sintomi, avendo le dimensioni di un cellulare lo può poggiare sul petto, premere un tasto e dopo trenta secondi l’elettrocardiografo si mette in contatto con il medico o la centrale operativa e in tempo reale si può leggere il suo elettrocardiogramma e capire di cosa si tratta. Il Poc a casa del paziente può fare tutti gli esami del sangue, pesa 650 grammi e ha le dimensioni di un vecchio telefono cellulare», ha aggiunto Crisarà, che poi ha chiesto: «Ma la professione è disponibile a questo cambiamento?». Per rispondere il vicesegretario della Fimmg ha ricordato che «abbiamo una congiunzione astrale irripetibile, con il pensionamento di tutta una coorte di medici di medicina generale, che potrebbero essere “resistenti” al cambiamento, e l’inserimento di nuovi medici, a cui se facciamo trovare le opportunità possono evolvere senza conflitti di tipo generazionale. Sta alla politica cogliere l’occasione. A Padova abbiamo organizzato corsi di ecografia generalista, erano 20 posti e abbiamo avuto 150 domande».
Da un punto di vista più generale, Crisarà ha spiegato che «il Medico di medicina generale deve continuare ad essere il punto di riferimento della comunità. Se questo è vero non possiamo pensare alle case di comunità come sostitutive degli studi periferici dei medici di medicina generale. Dobbiamo pensare alle case di comunità come sintesi di un’organizzazione di base territoriale in cui gli studi dei medici di medicina generale sono gli spoke di un hub in cui si fa sintesi territoriale, vicino ai territori e ai cittadini. Ci vuole un passaggio culturale: al medico di medicina generale non deve essere più consentito – uso una parola forte - di lavorare da solo, ma deve lavorare in un sistema come minimo di ‘micro-team’. Per ogni medico di medicina generale deve essere previsto un supporto amministrativo e di personale sanitario, infermiere o operatore, che abbia questa cellula fondativa su cui costruire i sistemi complessi».