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"A dati 2021, i medici italiani tra i 45 e 54 anni - quelli che inizieranno a lasciare l'impegno attivo a partire dal '32/33 - sono poco meno di 42mila, la coorte precedente (tra 55 e 64) ne conta circa 74mila. Gli accessi programmati a Medicina si sono mantenuti intorno alle 7/8mila unità fino al 2010, per attestarsi sulle io/iimila unità negli anni successivi, fino al 2019 quando è iniziata una rapida crescita culminata, dopo un triennio a 15mila, nei 20mila di quest'anno. Le stime più pessimistiche a disposizione collocano intorno al '30 la fine delle tensioni tra offerta complessiva di professionisti (che sono già "in produzione") e fabbisogni di rimpiazzo. Tutto ciò significa che se continuiamo a mantenere una media di accessi intorno alle 15mila unità, il 25% in meno rispetto a quest'anno, in un decennio, a partire dal '32, verranno "prodotti" circa 150mila medici a fronte di 42mila in uscita". Il calcolo è de "Il Sole 24 ore", in un articolo a firma di Mario Del Vecchio, che spiega: "A meno di immaginare un aumento drammatico nel fabbisogno di medici, in un sistema che già oggi ha una densità medica significativamente maggiore di quella che registrano Francia e UK, la "pletora medica" con tutte le sue conseguenze, è certa e, in parte, inevitabile anche per il dispiegarsi degli effetti di decisioni già prese (gli accessi definiti degli anni recenti). Molti Paesi adottano per le professioni sanitarie politiche di numerus clausus in ragione dei costi connessi alla formazione, della qualità richiesta alla formazione stessa e dei fenomeni di sovraconsumo che un numero eccessivo di professionisti potrebbe ingenerare. Se il nostro Paese intende mantenere un assetto a numero chiuso, le migliori modalità con cui realizzarlo sono un tema diverso, ragionevolezza imporrebbe una rapida e drastica diminuzione degli accessi, verso ordini di grandezza coerenti con le 42mila uscite del decennio considerato. In questa prospettiva le recenti prese di posizione del mondo politico sugli accessi a Medicina potrebbero essere ottimisticamente interpretate non tanto come espressione di una facile ricerca di consenso nel perenne clima elettorale che affligge il nostro dibattito pubblico, quanto, piuttosto, il frutto di una realistica presa d'atto dell'impossibilità, nell'attuale contesto politico e istituzionale, di produrre su questo tema decisioni collettive caratterizzate da un minimo di razionalità tecnica (i fatti citati all'inizio)".