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«Le Case di comunità sono solo contenitori, il vero nodo è il personale»
«Quello che non è chiaro è se le case di comunità saranno aggiuntive o sostitutive dei medici di base così come sono organizzati oggi e fatico a comprendere come si possa parlare di realtà integrative, perché come minimo significa che il medico deve aumentare il suo orario di lavoro». Lo ha detto Domenico Crisarà, segretario della Fimmg di Padova, intervistato dal quotidiano "Il Mattino di Padova" sul tema delle venti Case di comunità che l'Usl 6 Euganea sta realizzando con un investimento di 48 milioni di euro.
«Come fa un medico a gestire ambulatori e presenza nella casa di comunità? Senza considerare tutto un altro ambito che oggi segue il medico di base, ovvero le visite domiciliari legate a cronicità e non autosufficienza che rientrano nel suo orario di servizio. Si dice che ci saranno altre figure mediche, ma dove andiamo a trovare gli specialisti che oggi non ci sono? Il rischio è che si crei qualcosa che replica gli attuali distretti», ha aggiunto Crisarà.
Le Case di comunità «a regime dovranno essere 40» ha precisato Crisarà, secondo il quale «le prime venti saranno pronte se tutto va bene entro il 2026. E le altre? E nel frattempo? Le case della comunità possono essere il punto di riferimento di secondo livello, per la specialistica ambulatoriale e la prevenzione: come sintesi di servizi territoriali diffusi può funzionare in città, dove i pazienti sono vicini, ma in provincia le distanze si dilatano. Reputo fuorviante anche il concetto di strutture aperte 24 ore su 24: perché le persone continueranno a fare riferimento ai Pronto soccorso, quindi non incideranno su quel fronte. E se di prossimità vogliamo parlare, la distanza del punto di assistenza di primo livello dall'utente deve essere al massimo di 6 chilometri, una dimensione che non mi sembra potrà essere garantita».
Nel futuro c''è un altro versante che potrebbe intrecciarsi con il ruolo delle case della comunità: «La nostra proposta è quella di creare delle unità erogative di base, le cosiddette aggregazioni funzionali territoriali in base alle quali i medici di un territorio, che va definito, si organizzano fra loro per garantire servizi di prossimità con una sede di riferimento. La casa di comunità spoke può essere il punto di riferimento di questa rete, ma è sui contenuti che si deve ragionare, non sul contenitore. Il vero nodo è il personale: oggi i medici di base rinunciano al posto perché né la Regione né l'Usl danno loro il contributo per pagare il personale di supporto (infermiere e segretaria). Infine erano stati stanziati dei fondi per dotare i medici di base - che stanno sviluppando le loro competenze con corsi promossi ad hoc - di strumentazioni per eseguire esami diagnostici in ambulatorio senza mandare il paziente in ospedale: ebbene, quei soldi sono stati dirottati altrove. Non sarebbe un modo efficace per ridurre le liste d'attesa senza aspettare le case della comunità?», ha concluso Crisarà a "Il Mattino di Padova".