I medici di base ci hanno salvati: ora aiutiamoli, siamo in debito.
Coronavirus, i medici di base ci hanno salvati: ora aiutiamoli, siamo in debito. Un omaggio ai medici di famiglia dal Corriere della Sera firmato Beppe Severgnini
Durante l’epidemia sono apparsi soli e impotenti, ma abbiamo visto che senza di loro il sistema salta: tornino al centro, è il nostro modo per rendere loro tributo del sacrificio.
La Vespa targata CR19493 - cambio a tre marce, fanale sul parafango - circola ancora, lui non c'è più. Il dottor Maurizio Tonghini, medico condotto, classe 1928, visitava i pazienti a domicilio, ogni mattina e in ogni stagione: scooter giallo e borsa nera sotto la sella, avanti e indietro per Crema. Il pomeriggio lo dedicava all'ambulatorio. Quarant'anni: dalla metà degli anni '50 alla metà degli anni '90. Aveva una carta dell'Africa orientale dietro le spalle, mobili di vetro, una scrivania piena di penne biro, un lettino e uno sgabello rotondo di metallo, altezza regolabile. L'ho conservato. Ogni tanto penso a quante decine di migliaia di persone si sono sedute lì sopra, con la bocca aperta, con gli esami del sangue in mano, col cuore in gola, con la schiena dolente. Il dottor Paolo Tonghini, classe 1896, era suo padre. Dopo il liceo «Manin» a Cremona, s'era iscritto a medicina a Parma ed era partito per il fronte della Prima Guerra Mondiale. Al ritorno s'era laureato, aveva conosciuto una ragazza di Piadena, tre anni più giovane, e l'aveva sposata. Lui medico condotto, lei maestra. La giovane coppia era venuta a vivere a Madignano, fuori Crema. Palmira somigliava alle ragazze sulle confezioni del sapone: il volto ovale, gli occhi verdi, i capelli raccolti sulla nuca. Il dottor Tonghini portava occhialini rotondi, si aggiornava per corrispondenza, suonava il piano, era imbattibile a scacchi, detestava le matrone ipocondriache e non si faceva pagare dai poveri. Il dottor Paolo era mio nonno materno; il dottor Maurizio era mio zio e, a lungo, il mio medico. Sarebbe possibile, oggi, svolgere la professione in quel modo? Certamente no. Ma i medici di famiglia servono ancora. Spendere parte dei fondi dell'Unione Europea per reinventare una professione indispensabile non sarebbe una cattiva idea. Una pandemia è una crisi; e le crisi, si sa, non vanno sprecate. Il medico di famiglia è la sentinella della salute pubblica. «Il perno delle cure primarie», dicono oggi. Il professionista dell'intuizione informata e della prima diagnosi. Una figura ancora attuale? Oppure è stata sostituita da Google, dai colleghi specialisti e dal Pronto soccorso? Paola Pedrini, segretario della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg), prova a essere rassicurante: «Il medico di famiglia mette insieme il puzzle. Lo specialista, per quanto bravo, vede il suo pezzetto. Noi abbiamo il quadro completo: situazione clinica, personale, familiare, sociale, economica. E un rapporto empatico col paziente». Un rapporto e un'empatia che il coronavirus ha messo in crisi. I medici di famiglia sono sembrati soli, impotenti e confusi: e noi con loro. L'impressione è che, all'inizio della pandemia, si navigasse a vista. I medici visitavano i malati senza protezioni. Maria Teresa Arrigoni, 1.600 pazienti, esercita a Milano: mi racconta d'aver comprato la visiera al Brico, sezione giardinaggio. «Dopo qualche tempo ci è stato detto "Restate in ambulatorio, monitorate i pazienti per telefono e per mail". Così abbiamo fatto. Abbiamo dato reperibilità telefonica dalle 8 alle 20. Ma, a quel punto, molti di noi si erano già infettati. Alcuni sono morti». Con i tamponi, non è andata meglio: all'inizio venivano eseguiti solo dopo il passaggio in Pronto soccorso, i medici di base non potevano prescriverli. Poi, in Lombardia, si sono mosse le Aziende Tutela della Salute (ATS), le strutture che si occupano della sanità. E ai medici di base è stato chiesto di segnalare i pazienti da sottoporre a tampone, se mostravano un quadro sospetto e dovevano rientrare al lavoro. Ma i tamponi - lo sappiamo - erano pochi e non bastavano. Il medico di famiglia non era scappato, in marzo e aprile, era lì: la sentinella vedeva il nemico, ma aveva a malapena le forze per lanciare l'allarme. Perfino il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, lo ha ammesso, il 9 giugno, nell'intervista a Marco Cremonesi sul Corriere : «Mi chiedete un mea culpa ? Probabilmente, negli ultimi anni abbiamo trascurato i medici di famiglia. A settembre lanceremo un importante piano d'azione a loro dedicato. Sono il primo presidio sanitario delle nostre comunità e lo renderemo più forte». Verrebbe da dire: meglio tardi che mai. Perché la medicina generale è gestita dalle Regioni, e non è una specialità come le altre? Perché il medico di famiglia non allarga le proprie competenze? Alessandro Inzoli - oncologo a Lodi, ammalato di Covid, guarito, tornato al lavoro - commenta: «Esiste una visione ospedalocentrica, in Lombardia e non solo. Il medico di famiglia, se non vuole diventare un semplice redattore di impegnative, deve chiedere maggiori responsabilità. Oggi è oberato di lavoro amministrativo, e troppi farmaci possono essere prescritti solo dal medico ospedaliero. In molte farmacie si possono eseguire, a pagamento, semplici esami di laboratorio. Solo pochi medici di famiglia sono attrezzati per offrire lo stesso servizio. Mio padre, Biagio, era medico condotto a Crema. Nei primi anni '70, in ambulatorio, eseguiva elettrocardiogrammi, elettroencefalogrammi, lastre toraciche. Molti suoi colleghi, oggi, hanno solo un fonendoscopio e il misuratore della pressione. Saturimetri, piccoli ecografi: dove sono?». Perché il ruolo del medico di base è fondamentale? «Perché in caso di nuove epidemie - che sono probabili, non soltanto possibili - i pazienti vanno tenuti fuori dagli ospedali, per quanto possibile: sono luoghi di contagio e trasmissione del virus. Il Pronto soccorso non è la porta di accesso al servizio sanitario; quella porta ha un nome, si chiama medico di famiglia», spiega Renata Gili, medico di Torino con una specializzazione in sanità pubblica (anche lei contagiata sul lavoro, ora guarita). Oggi collabora a Bologna con la Fondazione Gimbe (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze). Il presidente Nino Cartabellotta: «Il cambiamento deve partire da dentro la categoria. Il medico di famiglia oggi è un libero professionista convenzionato con il Servizio sanitario: un rapporto anomalo. Per rivalutarne la figura, sono necessari grandi cambiamenti contrattuali e organizzativi. La medicina generale deve cambiare vestito: ma vuole farlo?». «Nessuno si salva da solo», ha detto papa Francesco in quella piazza livida di pioggia, la vigilia di Pasqua. Se ci siamo salvati, è anche grazie ai nostri medici, negli ospedali e fuori dagli ospedali. Abbiamo un debito con loro. Un modo di onorarlo? Aiutiamoli a lavorare meglio.
Corriere della Sera